lunedì 17 gennaio 2022

DIVIETO DI DETENERE I CANI LEGATI ALLA CATENA (O COMUNQUE LEGATI)

La tutela degli animali mi sta molto a cuore sia da un punto di vista giuridico che personale, ho deciso quindi di riproporre un mio articolo pubblicato a dicembre in anteprima su Il Faro di Max Del Papa, con il titolo "Niente catene per i nostri angeli" 

Se sono moltissimi gli animali morti a causa dei devastanti incendi che quest’estate hanno martoriato la Sardegna, non sono meno numerosi quelli colpiti dalle alluvioni che nei giorni scorsi hanno flagellato la Sicilia.

L’Unità di Emergenza dei volontari della LAV, accorsi a Catania per mettere in salvo i randagi (oltre che per aiutare i rifugi e i proprietari di esemplari che vivono all’aperto), si è trova a a fronteggiare il problema dei cani lasciati legati dai padroni, animali che non avrebbero potuto essere salvati in caso di una nuova emergenza. Da qui è nata la collaborazione con alcuni sindaci “per l’emissione di un’Ordinanza di divieto di detenzione di cani alla catena e in altre forme che non permettono il loro salvataggio vista l’emergenza alluvionale”.

Sono purtroppo ancora vivide le terribili immagini, viste sui telegiornali o su internet, della moltitudine di animali morti in maniera atroce, tra cui tantissimi cani arsi vivi. Tutti legati ad una maledetta catena, o rinchiusi senza alcuna possibilità di una via di scampo, di fuga.

Un orrore simile è potuto accadere nel 2021 perché nella maggior parte delle regioni italiane non c’è ancora una legge che vieti di tenere a catena un animale d’affezione quale il cane.

In Italia, infatti, non esiste una normativa nazionale che regoli questa pratica purtroppo ancora molto diffusa, laddove sono le Regioni e i Comuni a regolare la materia. Ne deriva una confusione tra regione e regione e perfino tra centri limitrofi, fermo restando che tenere gli animali sempre legati alla catena o a corde costituisce reato, in quanto detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura che causa loro sofferenza.

Diversi esperti interpellati da Save The Dogs e Green Impact, in un recente rapporto dal titolo “Verso il divieto di tenere i cani legati alla catena”, hanno evidenziato che “legare un cane alla catena è una vera e propria forma di maltrattamento, che impatta in modo significativo sul benessere del cane, molto spesso condannato a trascorrere tutta la vita legato a un palo, lontano dall’affetto di quella che dovrebbe essere la sua famiglia”.

Le Regioni Campania, Umbria e Marche, e da agosto il Lazio, sono le uniche che hanno una normativa che vieta in modo assoluto la detenzione di cani alla catena. Mentre, sempre secondo il citato rapporto, “Veneto, Emilia-Romagna, Puglia, Lazio, Lombardia, Abruzzo hanno una normativa che prevede delle eccezioni specifiche e circoscritte al divieto e Sicilia, Basilicata e Liguria non hanno una normativa sul tema”. Infine “le rimanenti Regioni e Province Autonome hanno una normativa desueta e formulata in maniera vaga ed inefficace”.

Tutto questo non fa che confermare l’urgenza, diremmo l’indispensabilità di leggi a tutela degli animali chiare, che prevedano sanzioni severe ed effettive: gli animali non hanno una voce per reclamare i propri diritti. Deve essere l’uomo, con le sue istituzioni ad imporre il rispetto “per le loro esigenze biologiche, etologiche e psicologiche”.

Rispetto alla detenzione di cani a catena (o comunque legati) il nostro Codice Penale prevede due fattispecie di reato: l’art. 544 ter e l’art. 727 C.P..

L’art. 727, comma 2, C.P. punisce chiunque detenga “animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze”; mentre l’art. 544 ter C.P., comma 1, invece, “punisce chiunque per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche”. La Suprema Corte si è espressa diverse volte in tal senso, ritenendo applicabili tali fattispecie a casi di detenzione di cani a catena.

Secondo la giurisprudenza, per integrare il reato di maltrattamento non occorrono lesioni necessariamente fisiche, ma è sufficiente la sofferenza degli animali, poiché la norma mira a tutelarli quali esseri viventi in grado di percepire dolore, anche nel caso di lesioni di tipo ambientale e comportamentale (Cass. n. 46291/2003; Trib. Pen. Torino 25.10.2006).

In merito alla sottoposizione a sevizie o a comportamenti, fatiche o lavori insopportabili per le caratteristiche etologiche dell’animale, assume valenza qualsiasi azione caratterizzata da un’evidente e conclamata incompatibilità con il comportamento della specie di riferimento come ricostruito dalle scienze naturali (Cass. n. 5979/2013)

Quando ci capita di constatare o di venire in qualunque modo a conoscenza di fatti di maltrattamento, ad esempio se troviamo un cane perennemente legato con una catena/corda troppo corta, o tenuto recluso su un balcone senza riparo e con poco cibo e acqua o altre situazioni di grave disagio per cani, gatti o altri animali da compagnia, ricordiamoci che si tratta di un REATO.

Si ha il potere ma soprattutto il dovere di denunciare!

Per salvare gli animali in difficoltà e punire i colpevoli, dobbiamo fare una segnalazione, meglio se scritta, alla forza pubblica. Questo anche quando, purtroppo, ci troviamo di fronte ad un presunto caso di uccisione di animali.

In caso di mancato loro intervento, si può configurare l’ipotesi di reato di “omissione d’atti d’ufficio”.

Avv. Claudia Benvenuti

lunedì 11 ottobre 2021

L' errore diagnostico nell'esercizio dell'attività medica per la Suprema Corte



L’esercizio dell’attività medica impone a chi la pratica la massima prudenza, perizia e diligenza nello svolgimento degli atti medici che essa comporta e pertanto in primo luogo nella effettuazione della diagnosi e nella individuazione della terapia, anche chirurgica, che si rende necessaria: quando più alternative sono possibili, il medico deve improntare le proprie scelte alla massima prudenza, per evitare di mettere a rischio la salute e la vita del paziente. Cosicché, l’errore diagnostico si configura non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca a inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga a un inquadramento erroneo, ma anche quando si ometta di eseguire o disporre controlli ed accertamenti doverosi ai fini di una corretta formulazione della diagnosi. Il medico, infatti, deve valutare se occorra compiere gli approfondimenti diagnostici necessari, per stabilire quale sia l’effettiva patologia che affligge il paziente e adattare le terapie a queste plurime possibilità: fino a quando il dubbio diagnostico non sia stato risolto e non vi sia incompatibilità tra accertamenti diagnostici e trattamenti medico-chirurgici, il medico che si trovi di fronte alla possibilità di diagnosi differenziale non deve accontentarsi del raggiunto convincimento di aver individuato la patologia esistente quando non sia in grado, in base alle conoscenze dell’arte medica da lui esigibili, di escludere la patologia alternativa, proseguendo gli accertamenti diagnostici ed i trattamenti necessari. Di guisa che l’esclusione di ulteriori accertamenti può essere giustificata esclusivamente per la raggiunta certezza che una di queste patologie possa essere esclusa ovvero, nel caso in cui i trattamenti terapeutici siano incompatibili, che possa essere sospeso quello riferito alla patologia che, in base all’apprezzamento di tutti gli elementi conosciuti o conoscibili, se condotto secondo le regole dell’arte medica, possa essere ritenuto meno probabile, sempre che la patologia meno probabile non abbia caratteristiche di maggiore gravità e possa, quindi, essere ragionevolmente adottata la scelta di correre il rischio di non curarne una che, se esistente, potrebbe però provocare danni minori rispetto alla mancata cura di quella più grave.


Cassazione Penale sentenza n. 12968 del 6 aprile 2021. 

venerdì 5 febbraio 2021

Responsabilità dell'ente per caduta su strada sconnessa

Foto di Sevda Mujgan su Pixabay

Con atto di citazione del 1/12/2011 la signora C.S.P. convenne, davanti al Tribunale di Napoli, il Comune della stessa città chiedendone la condanna al risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c. o, in subordine, ex art. 2051 c.c. per l'infortunio, consistente nella frattura di una vertebra lombare, riportato in conseguenza di una caduta avvenuta, quando, mentre attraversava la strada, finiva con il piede in una pozzanghera d'acqua che celava una buca e la presenza di cubetti di porfido malfermi, perdendo l'equilibrio e cadendo sulla schiena. 

Assunte prove testimoniali e CTU medico-legale, il Tribunale di Napoli ritenuta raggiunta la prova in ordine alla situazione di insidia o trabocchetto, accolse con sentenza la domanda ex art. 2043 c.c. condannando il Comune al pagamento del risarcimento del danno. 

La Corte d'Appello di Napoli, adita dal Comune, riteneva invece che la fattispecie rientrasse nell'alveo dell'art. 2051 c.c. e che, conseguentemente, l'ente proprietario fosse gravato dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada salva la possibilità per l'utente danneggiato di percepire o prevedere con l'ordinaria diligenza la situazione di pericolo. 
Riteneva, altresì, che la pronuncia di primo grado meritasse censura per non aver richiamato i principi e gli insegnamenti giurisprudenziali in punto di autoresponsabilità dell'utente di strade demaniali che, ove considerati, avrebbero dovuto condurre il giudice a ritenere esigibile, da parte della danneggiata, una condotta più prudente evitando di poggiare il piede proprio nella buca ricolma d'acqua. 
Il giudice ha, pertanto, ritenuto di dover considerare l'efficienza del comportamento imprudente della vittima nella produzione del danno che si atteggia a concorso causale colposo valutabile ai sensi dell'art. 1227 c.c. fino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta omissiva dell'ente proprietario della strada e l'evento dannoso integrando gli estremi del fortuito. 

Sulla base di queste premesse ed in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda attorea.

La danneggiata ha proposto ricorso in Cassazione sulla base di diversi motivi, tra di essi: 
- violazione e falsa applicazione dell'art. 2051 c.c. con riguardo all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 - la sentenza d'appello ha ritenuto interrotto il nesso eziologico tra la condotta della danneggiata ed il danno, senza dare la prova del fortuito che avrebbe dovuto consistere in una condotta autonoma, eccezionale, imprevedibile e colposa della vittima. 
- violazione e falsa applicazione dell'art. 1227 c.c., comma 1. La sentenza ha mal applicato la disposizione indicata in epigrafe perché non avrebbe posto in relazione la presunta violazione del dovere di cautela incombente sulla danneggiata con la violazione degli obblighi di custodia che gravano sull'ente.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso, ritenendolo fondato, ribadendo i seguenti principi:

- L'art. 2051 c.c. configura un caso di responsabilità oggettiva del custode e prevede che il danneggiato debba limitarsi a provare il nesso causale tra la cosa in custodia ed il danno, spettando al custode la prova cd. liberatoria mediante dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di assoluta eccezionalità. L'ente proprietario della strada supera la presunzione di colpa quando la situazione che provoca il danno si verifica non come conseguenza di un difetto di diligenza nella sorveglianza della strada ma in maniera improvvisa e per colpa esclusiva dello stesso danneggiato. Il Comune avrebbe dovuto dimostrare che il fatto della stessa danneggiata nel caso in esame avesse i caratteri dell'autonomia, eccezionalità, imprevedibilità ed inevitabilità e che fosse da solo idoneo a produrre l'evento, escludendo i fattori causali concorrenti. La sentenza non ha rispettato le condizioni richieste dalla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la condotta della vittima del danno causato da una cosa in custodia costituisce caso fortuito idoneo ad escludere la responsabilità del custode ex art. 2051 c.c. ove sia colposa e imprevedibile (Cass., 3, n. 25837 del 31/10/2017; Cass., 6-3, n. 27724 del 30/10/2018; Cass., 6-3 n. 9997 del 28/5/2020). 

-  E' principio affermato da questa Corte che, se il fatto colposo del danneggiato può concorrere nella produzione dell'evento, il fatto che una strada risulti "molto sconnessa" con buche e rattoppi, indice di cattiva manutenzione non costituisce un'esimente per l'ente pubblico in quanto il comportamento disattento e incauto del pedone non è ascrivibile al novero dell'imprevedibile (Cass., 3, n. 15761 del 29/7/2016). 

L'ente proprietario di una strada si presume responsabile, ai sensi dell'art. 2051 c.c., dei sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo immanente connesse alla struttura ed alla conformazione della stessa e delle sue pertinenze, fermo restando che su tale responsabilità può influire la condotta della vittima, la quale, però, assume efficacia causale esclusiva soltanto ove sia qualificabile come abnorme, cioè estranea al novero delle possibilità fattuali congruamente prevedibili in relazione al contesto, potendo, in caso contrario, rilevare ai fini del concorso causale ai sensi dell'art. 1227 c.c. (Cass., 3, n. 15761 del 29/7/2016; Cass., 3, n. 2480 del 1/2/2018). 

La condotta del danneggiato che entri in interazione con la cosa si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull'evento dannoso in applicazione anche ufficiosa dell'art. 1227 c.c., comma 1 richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela riconducibile al principio di solidarietà espresso dall'art. 2 Cost. sicché quanto più la situazione di danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente prevedibili in rapporto alle circostanze tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisce un'evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale connotandosi per l'esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro (Cass., 6-3 n. 9315 del 3/4/2019). 

Corte di Cassazione,  Sezione Terza Civile, ordinanza n. 456/2021

lunedì 30 novembre 2020

I dati informatici (files) sono cose mobili ai sensi della legge penale


La Suprema Corte (II sez. penale) con la sentenza n. 11959 del 10 aprile 2020, 
 afferma il seguente principio di diritto: i dati informatici (files) sono qualificabili cose mobili ai sensi della legge penale e, pertanto, costituisce condotta di appropriazione indebita la sottrazione da un personal computer aziendale, affidato per motivi di lavoro, dei dati informatici ivi collocati, provvedendo successivamente alla cancellazione dei medesimi dati e alla restituzione del computer "formattato".

La Suprema Corte analizza criticamente gli orientamenti giurisprudenziali precedenti contrari ed espone le motivazioni per cui i files debbano rientrare nella nozione di cosa mobile e di “materiale apprensione”. Viene ribadito il principio secondo cui  le motivazioni logico-giuridiche devono adeguarsi al significato che un concetto giuridico ha nel un periodo storico in cui viene utilizzato (Corte Cost., sent. n. 414/1995).

Si riportano alcuni stralci della sentenza in oggetto. 

"Il file, pur non potendo essere materialmente percepito dal punto di vista sensoriale, possiede una dimensione fisica costituita dalla grandezza dei dati che lo compongono, come dimostrano l'esistenza di unità di misurazione della capacità di un file di contenere dati e la differente grandezza dei supporti fisici in cui i files possono essere conservati e elaborati. L'assunto da cui muove l'orientamento maggioritario, giurisprudenziale e della dottrina, nel ritenere che il dato informatico non possieda i caratteri della fisicità, propri della "cosa mobile" (nella nozione penalistica di quel termine) non è, dunque, condivisibile; al contrario, una più accorta analisi della nozione scientifica del dato informatico conduce a conclusioni del tutto diverse."

"Resta, insuperabile, la caratteristica assente nel file, ossia la capacità di materiale apprensione del dato informatico e, quindi, del file; ma occorre riflettere sulla necessità del riscontro di un tale requisito - non desumibile dai testi di legge che regolano la materia - perché l'oggetto considerato possa esser qualificato come "cosa mobile" suscettibile di divenire l'oggetto materiale delle condotte di reato e, in particolare, di quella di appropriazione."

"Si è giunti da parte delle più accorte opinioni dottrinali - in modo coerente con la struttura dei fatti tipici considerati dall'ordinamento (caratterizzati dall'elemento della sottrazione e dal successivo impossessamento) e dei beni giuridici che l'ordinamento intende tutelare sanzionando le condotte contemplate nel titolo XIII del codice penale - a rilevare che "l'elemento della materialità e della tangibilità ad essa collegata, della quale l'entità digitale è sprovvista, perde notevolmente peso: il dato può essere oggetto di diritti penalmente tutelati e possiede tutti i requisiti della mobilità della cosa".
"A questo riguardo va considerata la capacità del file di essere trasferito da un supporto informatico ad un altro, mantenendo le proprie caratteristiche strutturali, così come la possibilità che lo stesso dato viaggi attraverso la rete Internet per essere inviato da un
sistema o dispositivo ad un altro sistema, a distanze rilevanti, oppure per essere "custodito" in ambienti "virtuali" (corrispondenti a luoghi fisici in cui gli elaboratori conservano e trattano i dati informatici); caratteristiche che confermano il presupposto logico della possibilità del dato informatico di formare oggetto di condotte di sottrazione e appropriazione."

"In conclusione, pur se difetta il requisito della apprensione materialmente percepibile del file in se considerato (se non quando esso sia fissato su un supporto digitale che lo contenga), di certo il file rappresenta una cosa mobile, definibile quanto alla sua struttura,
alla possibilità di misurarne l'estensione e la capacità di contenere dati, suscettibile di esser trasferito da un luogo ad un altro, anche senza l'intervento di strutture fisiche direttamente apprensibili dall'uomo."

"Dal punto di vista dell'effettiva realizzazione, attraverso le condotte appropriative di dati informatici, dell'effetto di definitiva sottrazione del bene patrimoniale al titolare del diritto di godimento ed utilizzo del bene stesso, le ipotesi di appropriazione indebita possono differenziarsi dalla generalità delle ipotesi di "furto di informazioni", in cui si è frequentemente rilevato che il pericolo della perdita definitiva da parte del titolare dei dati informatici è escluso in quanto attraverso la sottrazione l'agente si procura sostanzialmente un mezzo per acquisire la conoscenza delle informazioni contenute nel dato informatico, che resta comunque nella disponibilità materiale e giuridica del titolare (valutazione che aveva indotto il legislatore, nel corso del procedimento di discussione ed approvazione della L. 23 dicembre 1993, n. 547 - recante modificazioni ed integrazioni alle norme del codice penale e del codice di procedura penale in tema di criminalità informatica -, ad escludere che alle condotte di sottrazione di dati, programmi e informazioni fosse applicabile l'articolo 624 c.p. " pur nell'ampio concetto di "cosa mobile" da esso previsto", in quanto "la sottrazione di dati, quando non si estenda ai supporti materiali su cui i dati sono impressi (nel qual caso si configura con evidenza il reato di furto), altro non è che una "presa di conoscenza" di notizie, ossia un fatto intellettivo rientrante, se del caso, nelle previsioni concernenti la violazione dei segreti": così la relazione al relativo disegno di L. n. 2773). Infatti, ove l'appropriazione venga realizzata mediante condotte che mirano non solo all'interversione del possesso legittimamente acquisito dei dati informatici, in virtu' di accordi negoziali e convenzioni che legittimano la disponibilità temporanea di quei dati, con obbligo della successiva restituzione, ma altresì a sottrarre definitivamente i dati informatici mediante la loro cancellazione, previamente duplicati e acquisiti autonomamente nella disponibilità del soggetto agente, si realizza il fatto tipico della materiale sottrazione del bene, che entra a far parte in via esclusiva del patrimonio del responsabile della condotta illecita.
Ritiene, pertanto, la Corte che nell'interpretazione della nozione di cosa mobile, contenuta nell'articolo 646 c.p., in relazione alle caratteristiche del dato informatico (file) come sopra individuate, ricorre quello che la Corte costituzionale ebbe a definire il "fenomeno della descrizione della fattispecie penale mediante ricorso ad elementi (scientifici, etici, di fatto o di linguaggio comune), nonché a nozioni proprie di discipline giuridiche non penali", situazione in cui " il rinvio, anche implicito, ad altre fonti o ad esterni contrassegni naturalistici non viol(a) il principio di legalità della norma penale - ancorché si sia verificato mutamento di quelle fonti e di quei contrassegni rispetto al momento in cui la legge penale fu emanata - una volta che la reale situazione non si sia alterata sostanzialmente, essendo invece rimasto fermo lo stesso contenuto significativo dell'espressione usata per indicare gli estremi costitutivi delle fattispecie ed il disvalore della figura criminosa. In tal caso l'evolversi delle fonti di rinvio viene utilizzato mediante interpretazione logico-sistematica, assiologica e per il principio dell'unità dell'ordinamento, non in via analogica" (Corte Cost. n. 414 del 1995)."

mercoledì 4 dicembre 2019

E' reato procedibile d'ufficio la violazione degli obblighi di assistenza familiare

La Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 37090/2019 del  4 settembre, ribadisce che l'omessa corresponsione del mantenimento per i figli minori, costituisce reato perseguibile d'ufficio ed esclude la possibilità di proscioglimento a seguito di remissione di querela.

Il caso ha la seguente origine: il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale X, giudicando in abbreviato a seguito dell'opposizione al decreto penale, dichiarava non doversi procedere nei confronti di Y, in relazione al reato di cui alla L. 8 febbraio 2006, n. 54, art. 3 (in relazione alla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12-sexies e all'art. 570 c.p.) per essersi sottratto all'obbligo di corrispondere l'assegno di mantenimento ai tre figli minori, come disposto in sede di separazione, per essere il reato estinto per intervenuta remissione di querela.

Ricorreva il Procuratore Generale presso la Corte d'appello, il quale chiedeva l'annullamento della sentenza impugnata, denunciando la violazione di legge (L. 8 febbraio 2006, n. 54, art. 3 in relazione alla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12-sexies, artt. 570, 570-bis c.p.) perché il reato per il quale si procedeva era perseguibile d'ufficio laddove, come nel caso di specie, commesso in danno dei figli minori degli anni 18.

La suprema Corte accoglieva il ricorso, ritenendolo fondato, per i seguenti motivi:

1. La giurisprudenza di legittimità è costantemente orientata ad affermare che "in tema di reati contro la famiglia, la fattispecie di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 12-sexies, richiamata dalla previsione di cui alla L. n. 54 del 2006, art. 3, che punisce il mero inadempimento dell'obbligo di corresponsione dell'assegno di mantenimento stabilito dal giudice a favore dei figli (senza limitazione di età) economicamente non autonomi, è reato perseguibile d'ufficio a natura permanente, la cui consumazione termina con l'adempimento integrale dell'obbligo ovvero con la data di deliberazione della sentenza di primo grado, quando dal giudizio emerga espressamente che l'omissione si è protratta anche dopo l'emissione del decreto di citazione a giudizio" (Sez. 6, n. 23794 del 27/04/2017, P.G. in proc. B., Rv. 270223).

2. Non sussistono neppure dubbi che, quanto ai fatti commessi prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, vi è continuità normativa tra la fattispecie prevista dall'art. 570-bis c.p. e quella prevista dalla L. 8 febbraio 2006, n. 54, art. 3 (Sez. 6, n. 56080 del 17/10/2018, G., Rv. 2747329, sicché la sentenza impugnata va annullata con rinvio al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di X perché proceda a nuovo giudizio facendo applicazione dei richiamati principi di diritto.